28 Ottobre 2020

ABITO dal latino HABITUS da HABERE comportarsi.

Relativo al modo di vestire: da bambino, da donna, da uomo ma anche da mattino, da pomeriggio, da cocktail, da sera o da ballo. Per l’estate e per l’inverno o la primavera e l’autunno.

Attitudine acquisita.

Nella filosofia aristotelica disposizione ad essere o ad agire in questo o quel modo.

In medicina costituzionalista, il complesso dei vari caratteri della forma generale del corpo che rivelino determinate caratteristiche dell’individuo.

Abito: indumento che si porta sopra la biancheria

(da dizionario Treccani)

Joelle Jolivet, Costumes, Inuits du Cuivre, Les Grandes Personnes 2007

Io/abito

L’abito è la casa dell’uomo, la sede del corpo. Lo spazio che ha a disposizione per esprimersi, rapportarsi con il mondo nel quale si muove e che gli si muove attorno, raccontare di sé laddove il corpo diviene spazio espositivo. 
Si arredano stanze così come si riempiono tasche, come si coprono, scoprono e comunque si abbigliano il busto, le gambe e le loro parti: il collo, le mani, i polsi, le gambe, le parti intime, il viso, le orecchie, i capelli e la testa. 

La soffitta è il luogo dei ricordi, delle cose importanti che lì custodite sentiamo la tranquillità di poterle quasi dimenticare, così la testa è la sede dei pensieri, delle emozioni e dei ricordi, detiene il maggior calore rispetto all’intero corpo, psicologicamente sentiamo di doverla proteggere per la fragilità del suo contenuto, di tenerla coperta e calda per poter sentire il resto di noi. Così come la casa non è tale senza tetto la testa/soffitta si copre dei capelli e delle loro acconciature e se non bastasse questo tetto le si crea un’altra stanza, si sale ancora: le si mette il cappello. Come il tetto a falda scende libero creando nicchie e abbaini, al cappello a sua volta sono dati il paraorecchie e il paranuca, per il caldo e per il freddo, e in alcuni casi per i colpi e le cadute.
Gli esposti di tutti i tempi potevano essere avvolti in fasce, panni e coperte, potevano essere nudi o avere indosso un solo camicino, potevano non avere dote alcuna, neppure un panetto di ricambio ma dai registri di tutti gli orfanotrofi apprendiamo che quasi tutti, entro i due anni di vita,  indossavano una cuffietta, bianca, rossa o nera a custodia della testa, del suo calore, dei suoi pensieri.

The Shape of Things to Come, New York Times Style Magazine, August 19, 2018

Il numero di capi che indossiamo è in relazione allo stare bene in quello spazio in cui le persone ci leggono, guardandoci: all’esporsi spavaldi e tutto in una volta, o al presentarsi, per quel che si è, progressivamente. Togliere o mettere vale a mostrarsi o a ritrarsi e lo spessore dell’indumento indossato non è mai casuale, la ragione di questa o quella  scelta può risiedere nell’inconscio, non esserci nota, ma non è mai randomica. Trovare il proprio stile significa trovare la propria casa, la più appropriata per sé, ma non solo: significa trovare il proprio movimento, il proprio passo nel mondo. Il movimento è il racconto del corpo, il linguaggio della danza è il movimento.
Corpo abito movimento danza casa sono parole che significano tutte come hai scelto di muoverti nel mondo, come lo abiti, concetti in continua evoluzione  e indivisibili in percorso di stile e sociologico.

Beatrice Masini, Pia Valentinis, Quello che ci muove. Una storia di Pina Bausch, rueBallu edizioni 2017

Mentre l’arte nei secoli si fa via via storia dell’uomo e del suo costume, la fotografia di moda rispecchia epoche e immagini anche sottili di quel che è o che non è l’infanzia, di come l’adulto abbiglia volendo abbigliarsi, fa apparire mettendo in mostra, c’è da chiedersi perché quindi nelle figure la rappresentazione del sé o dell’idea di sé, della bambina o del bambino non passi o lo sia troppo poco spesso, attraverso ciò che deliberatamente si decide di disegnare, tratteggiare immaginare loro addosso e del perché il colore e la meta lettura si facciano parlanti al posto e oltre l’abito.

Nota: il video che Google considera soggetto a limiti di età  è tratto da uno spettacolo di danza del coreografo greco Dimitris Papaioannou, che nel 2004 realizzò le coreografie per la serata inaugurale e di chiusura delle olimpiadi. Nowhere del 2009,  è uno dei titoli che proclamarono l'artista greco una star internazionale tanto che anche il Tanztheater Wupperal, compagnia che fu di Pina Bausch, lo volle per affidargli un progetto. In questo video si vedono due ballerini nudi, una donna e un uomo.

Albertine, Modelli, Fatatrac 2020

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