15 Febbraio 2021

Christopher Robin Milne

Il mio passato è pieno di aneddoti ma uno in particolare destò in me lo stesso interesse che destano quelle piccole cose che si vedono solo con la coda dell’occhio e che hanno a che fare con quel qualcosa che pur sotto gli occhi non sempre è chiaro. Anni orsono un bambino, maschio, in studio da troppe ore con adulti indaffaratissimi e noncuranti dell'infanzia in generale, si mise ad osservare con attenzione dei disegni lasciati sul tavolo.
Gli chiedemmo cosa ne pensasse e lui, con motivazioni che trovai assolutamente inattaccabili, distrusse, smontandolo come una costruzione lego pezzettino per pezzettino, il lavoro di alcune settimane. Quei disegni lo riguardavano da vicino: si trattava del primo lancio di una collezione dedicata ai bambini, maschi in particolare.
Le sue osservazioni accesero una luce su un qualcosa che da settimane non riuscivo a mettere a fuoco pensando fosse il disegno, il suo stile, che non mi stesse convincendo. Le sue critiche ci costrinsero ad ascoltarlo con molta attenzione quando raccontava che cosa voleva indossare e, con una consapevolezza quasi adulta, cosa non voleva assolutamente neppure avere nel suo guardaroba. Ho tenuto con me, negli anni successivi, quel bambino maschio, ad ogni inizio collezione dedicata all’infanzia era a lui che ritornavo.
In alcuni albi illustrati l’abito è invece inteso proprio come casa del corpo e ne esprime la personalità e la psicologia del suo inquilino, sia essa una bambina o un bambino.

Chiara Rapaccini, Vestiti impossibili, Salani2012

Chiara Rapaccini, artista, designer, illustratrice e autrice, in un albo del 2012, Vestiti Impossibili edito da Salani, racconta proprio di quanto a volte i vestiti delle bambine e dei bambini siano indumenti che il loro umano adulto non sceglierebbe mai di indossare se non celato dalle solide mura di casa e solo dentro casa: abiti di seconda, terza, quarta mano, ruotati tra cugini e parenti di tutti i gradi e magari passati anche al fratello o alla sorella del compagno di classe di tuo fratello prima di arrivare a te, ultimo nato, dopo migliaia di lavatrici e bucati sbagliati. Stinti di fatto, ormai dai colori surreali, anche se fatti passare come all’ultima moda, a volte un po’ infeltriti e corti, spesso con gomiti, ginocchia e natiche ben disegnate segno dell’inquilino precedente a cui il nostro corpo mai e poi mai potrà adattarsi! Allora l’infanzia testa l’intorno e fantastica su abiti giocosi e gioiosi, dal mondo degli oggetti non è difficile a ben guardare, vedere cose nelle cose, utilizzare a rovescio o diversamente dalle abitudini umane adulte, stravolgendo, reinventando, riciclando con una logica fanciulla che non da possibilità altre. A fine albo si sarà così decisamente spiazzati da chiedersi quali abiti siano veramente impossibili! 

Nikolaus Heidelbach, Cosa fanno i bambini? e Cosa fanno le bambine?, Donzelli , 2010, 2011

Un’operazione decisamente più puntuale nel raccontare il sè attraverso l’abito è quella ad opera di Nikolaus Heidelbach in Cosa fanno le bambine? Cosa fanno i bambini? entrambi editi da Donzelli tra il 2010 e il 2011
Da una parte le femmine dall’altra i maschi, le copertine parlano chiaro le squadre sono due disposte una di fronte all’altra. I maschi di fronte le bambine di spalle, come in una partita a ruba bandiera. Tredici per squadra. E Heidelbach dona un nome a tutti e ventisei, non sono personaggi qualsiasi, si chiamano, appartengono, sono bambine e bambini. E poi con minuzia li veste. Ci si potrebbe soffermare solo sulle copertine e farne una lettura molto puntuale. Ventisei individui pettinati in modo diverso, dove anche la riga che separa le chiome è puntualmente tratteggiata nel disegno, orecchie che arditamente spuntano da capelli sottili e lunghi o tenuti cortissimi per praticità - o per provare a essere un po’ un maschio se si è femmina - ciuffi, spazzole e frangette, capelli dai colori diversi, dai tagli differenti, dalle caratteristiche differenti: lisci, liscissimi, crespi. E al dunque, ad ognuno il suo abito: camice, pantaloni - lunghi, a metà gamba, corti - gilet e pullover, scamiciato o abitino, felpa, calze - lunghe, corte, collant, pesanti, senza calze, arrotolate - scarpe e ovviamente accessori. E a ognuno la propria storia, la propria personalità, che possiamo leggere negli abbinamenti, nei colori, nel taglio dei capelli, nell’elastico fermacoda o nel fiocchetto. Nella postura. Non vediamo le bambine in viso ma così abbigliate, descritte, potremmo immaginarne l’espressione, l’età, il carattere. Solo dopo averli ben conosciuti possiamo dirci pronti ad affrontarli nelle pagine a seguire.
Dove i termini pronti e affrontarli non sono affatto casuali.

Emma Adbåge, La buca, Camelozampa 2020 

Sono sicuramente compagni di scuola i bambini di Heidelbach quando si incontrano sulla copertina dei due albi e lì decidono di sfidarsi femmine contro maschi e viceversa, la postura è da cortile durante la ricreazione o appena fuori da scuola a dare un nuovo assetto alla giornata. Lo sono sicuramente quelli di Emma Adbåge in La Buca edito da Camelozampa nel 2020 . È un’infanzia la sua inarrestabile, occupata in un lavorio costante che prevede l’utilizzo dello spazio a disposizione a tutto tondo, nulla di ciò che è presente sulla scena è dimenticato, non sondato, non protagonista di un gioco. I bambini e le bambine sono perfettamente abbigliati, non indossano indumenti che ne impediscono il movimento, non gonfi piumini o cappotti per bene, è un modo di vestire semplice, elastico come il corpo, che segue i movimenti di gambe e braccia sin negli angoli più ardui, nelle piegature ad effetto quello che sceglie per loro la loro autrice. Il corpo come disegnato senz'ossa - espressione tipica di una certa rappresentazione del corpo nell’arte - e l’abito perfettamente elastico creano quell’armonia di movimento che non genera attriti ma una casa confortevole sempre, che non desta preoccupazioni, è alleata.
Nel mondo reale, dal quale si attingono spunti in continuazione, l’abbigliamento destinato all’infanzia, lasciata la grande distribuzione e l’abbigliamento per la scuola, ripete un noioso e arrogante clichè di maschi spavaldi e di bambole-bambine solo apparentemente rivolto all’acquisto emozionale degli adulti. 

Sieb Posthuma, Il Signor Paltò, Gribaudo 2012

In un albo edito da Gribaudo nel 2012 di Sieb Posthuma, Il Signor Paltò, ben si evidenzia quel freddo esistenziale, quella diffidenza verso l’altro, quel non essere sicuri di poter andare verso l’altro con serenità, che induce a coprirsi, indossare strati su strati, cappotti su cappotti pur continuando a sentire freddo. Sino ad annullarsi negli strati per celarsi agli occhi di tutti. Far sparire i propri confini. Costruirsi attorno una casa di tanti muri e intercapedini, una fortezza che come tale protegga, non già dal freddo ma dal fuori. Tanto da diventare visibili da lontano, quasi un fenomeno da baraccone, più qualcosa che assomiglia fenomeno da circo che a una piccola persona infreddolita dalla mancanza di calore. Umano, vivo. Così, cappotto su cappotto, Il Signor Paltò non passerà più dalle porte, non potrà rientrare a casa sua, dovrà alloggiare le sue stufe sotto gli strati di lana, farà impazzire i sarti, dovrà indossare cappotti dalle tagli smisurate. Almeno sino all’incontro con la Signora Paltò. Sarà allora possibile togliere piano, piano, strati e strati di lana, simbolicamente acqua e sabbia, abbattere le barriere, scoprirsi letteralmente sino a dar forma a un corpo e timidamente lasciarci accettare e accettarsi, con le gote rosse, davanti a una tazza di tè e al tramonto.

In Facciamo che di Andrè Marois e illustrato da Gérard DuBois edito da Orecchio Acerbo nel 2016, quel che succederà è subito esplicitato da Jean-François basta osservarlo bene: si presenta sulla porta di casa dell’amico Martin, pulito, fresco e con abiti ben stirati, potremmo sentire il profumo dell’olio di mandorle con il quale è stato sicuramente frizionato, corpo e capelli. Tutto in lui dice quel per bene tanto caro a tutte le mamme del mondo è così rassicurante. Arrivando, un attimo prima che si apra la porta dopo aver suonato il campanello, si sfila il cappello dal capo come educazione vuole e lo stringe tra le mani. Ma quel berretto che pare innocuo, che immaginiamo di morbido jersey, a righine rosse poco c’entra con l’essere per bene di camicia e pantaloni corti! È frigio, il berretto ne ha la forma e anche con un solo accenno di colore rosso, è il berretto dei rivoluzionari, quello che Eugène Delacroix  fa indossare alla Marianne in uno dei suoi più celebri dipinti, La libertà che guida il popolo, e le barricate infatti non tarderanno ad arrivare, così come un nuovo nemico di cui avere molta paura! 

Sottolinea la forza energizzante della riga sull’infanzia Emanuele Luzzati che dona immagini frizzanti alle parole del maestro Mario Lodi in Il pensiero di Brio edito da Franco Cosimo Panini nel 2019. La riga è nelle illustrazioni di Luzzati qualcosa che appartiene alla personalità di Brio tanto da essere pari e quieta quando lui è stanco e perturbata anche da una riga rossa, da non riuscire a stare nella figura e soprattutto dritta, quando qualcosa muove nell’animo di Brio che sia un gioco o, ancora di più, l’amore.
La riga è uno dei marchi dell’infanzia, la conosce sin dalle fasce quando il tessuto arrotolato attorno al corpo lasciava un effetto come rigato. Come il rosso la riga attrae, è visibile e per le sue caratteristiche visive “non sta ferma”. La storia della zebra è la storia dell’infanzia, come spiega Michel Pastoureau nel suo breve saggio La stoffa del diavolo, cavallo di fatto con un manto a righe bianche e nere - o nere e bianche? - una dualità che ne cambia radicalmente l’aspetto, qualcosa di diabolico di pcui diffidare. Solo quando la comunità scientifica del tempo diede una spiegazione alla vera natura dell’animale, ne fornì un nome e delle caratteristiche questa entrò nei libri dedicati all’infanzia e oggi zebra e bambini vestiti a righe non spaventano più, almeno non così tanto! 


Ps: la recensione completa degli albi qui menzionati si trova nella rubrica Letteratura e illustrazione in questo sito. 

Cover dell'articolo: Davide Calì, Isabella Labate, Tre in tutto, Orecchio Acerbo 2018
Cover del mese: Ethan James Green, IntrepidLondon.com


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