15 Febbraio 2021

Elena Odriozola, Ya sé vestirme sola, Ediciones Modernas El Embudo, 2019

Uno sguardo ancora poco attento è riservato, negli albi dedicati all’infanzia e non solo, all’abbigliamento quando nella realtà ricopre un ruolo assolutamente fondamentale per bambine e bambini, sin dalla più tenera età.
Come vestono gli illustratori e le illustratrici l’infanzia nelle figure dei libri, con che parole descrivono gli abiti delle bambine e dei bambini gli autori e le autrici, che posto hanno i vestiti all’interno della narrazione? Se si escludono i cartonati per la prima infanzia dove l’abbigliamento è un elemento con il quale si misurano le proprie competenze nel vestirsi e nello svestirsi e nel nominare i vari indumenti e accessori, l’infanzia rappresentata è impegnata a fare o ad essere in una visione talvolta filosofica, talaltra onirica o appartenente ad un ricordo: quello dell’infanzia propria dell’autore o dell’illustratore, femmina o maschio che sia. Spesso se non è pedissequo, mero esercizio, l’abbigliamento è ridotto a unità minime di segno, il bianco della pagina che si fa abito del corpo, la libertà delle righe tracciate “senza bordo” che si fa t-shirt, un marrone che si fa scarpa o scarponcino così come il giallo e il rosso si fanno stivale per la pioggia. Nel tempo non è però sempre stato così. 

Arthur Rachkam, Cinderella - 1919

Se facessimo un passo indietro e cambiassimo epoca, dirigendoci verso il paese delle fiabe non metteremmo molto ad accorgerci che in quel tipo di narrazione gli abiti e gli accessori avevano un ruolo ben definito. Innanzitutto era una fortuna averli, cenciosi o meno, citarli serve tutt’oggi a individuare lo stato sociale del protagonista e a collocarlo rispetto ai personaggi altri e al luogo, alcuni si materializzavano grazie alle portentose bacchette magiche delle fate, altri erano essi stessi dotati di poteri particolari che trasmettevano a chi li indossava, comunque proteggevano e di sovente erano il soggetto nei titoli. Come Cappuccetto rosso, per fare un esempio ormai banale, Le soprascarpe della felicità, Il mastro gatto meglio noto come Il gatto con gli stivali, Pelle d’asino, I vestiti nuovi dell’imperatore e ancora Il berretto da notte dello scapolo, per citarne solo alcuni perché A mille ce n’è! Una cosa era assolutamente certa a quei tempi: sapevamo perfettamente chi era l’altra o l’altro che incontravamo su quelle stradine che portavano alle mura di un feudo o a casa dell’Orco. Tornando alle figure nei libri già solo in epoca moderna l’abito ben definiva la bambina o il bambino che lo indossava e i particolari ne erano di arricchimento. È avvenuto quindi qualcosa, negli anni, a livello di percezione dell’infanzia, del libro per l’infanzia e del suo fruitore.

Patricia Lee Gauch, Satomi Ichikawa, Dance, Tanya, Puffin Books 1996

L’abito è la casa del corpo, come già detto, lo spazio che ha a disposizione per esprimersi, rapportarsi con il mondo nel quale si muove e che gli si muove attorno, e raccontare di sé. L’abito è il mezzo che permette di incontrare l’altro e di raccontare senza ricorrere alle parole chi siamo e, spesso, in che stato d’animo ci troviamo, se siamo dischiusi o chiusi all'umanità altra da noi, e se sempre o solo in quel momento. Fa parte del nostro personale racconto visivo. Si arredano stanze come si abbigliano il busto, le gambe, le braccia e i loro segmenti: il collo, le mani, i polsi, le gambe, le parti intime, il viso, le orecchie, i capelli e la testa. L’ arte, in una delle sue molteplici letture, agendo un racconto pedissequo della vita dell’uomo e della sua evoluzione ne ha dato particolare risalto sin dalle età più antiche, con grande dovizia di particolari.
Un albo che ne fa un racconto puntuale non dal punto di vista cronologico ma dal punto di vista dell’evoluzione dell’abbigliamento, di come sia trasversale in tutte le epoche e in tutti i luoghi della terra è Costumes di Joëlle Jolivet  apparso per la prima volta nel 2007 pubblicato da Èditions du Panama e ripubblicato nel 2013 da Les Grandes Personnes. Il libro, di grandi dimensioni, è come una scatola, girando le pagine solleviamo il coperchio disvelando un mondo che solo in parte conosciamo e che ci viene presentato come un catalogo di possibilità. E dopo aver raccolto accessori in queste scatole immaginarie, l’autrice/illustratrice sistema con cura donnine e omini, ben in fila, a ognuno il proprio spazio per parlare dell’abito che abitano e dell’occasione per indossarlo: per quando fa caldo, freddo oppure è umido e magari piove; a raccontare che sì, le femmine portano i pantaloni ma anche i maschi la gonna in tutto il mondo e in tutte le epoche; di abiti sportivi, da lavoro o da spettacolo o del nudo in un’attenta riflessione sul significato di nudo nel costume e nelle tradizioni delle differenti popolazioni che abitano il mondo. E poi, come in un gioco di bambole di carta, con i vestiti con le alette, racconta il sopra e il sotto di determinate tenute, che sia quella degli Inuit del XX secolo o di un Samurai giapponese dell’epoca Kamakura del XIII secolo, perché anche le mutande sono state una conquista per l’essere umano! Segue nelle ultime pagine una breve storia del costume per piccoli assaggi. È un libro illustrato da guardare per acquisire la capacità di osservare con occhio diverso chi ci sta accanto, anche in questo momento. 



Eppure il dibattito attorno all’abito è oggi al centro di molte sperimentazioni e ricerche artistiche e non. Come unità abitativa minima del corpo e del sé, come spazio del corpo e spazio territoriale, casa e come tale luogo di raccoglimento, di pausa dal fuori, spazio proprio e protettivo, rifugio temporaneo, prende vita e si alimenta dai fenomeni migratori che hanno coinvolto l’umanità in questi ultimi decenni ed è alla base del lavoro di ricerca e dell’arte di Lucy Orta, fashion designer, considerata una delle maggiori artiste visive del momento, che col marito, Jorge Orta, architetto ha dato vita a progetti quali Refuge Wear e Body Architecture lavorando su capi di abbigliamento trasformabili, mantelle-tenda, zaini che diventano unità minime di abbigliamento e abitazione, studiati per e con le persone che abitano le strade siano essi rifugiati politici, migranti o senzatetto considerando il singolo come l’individuo socialmente solo il cui recupero e inserimento passa solo attraverso la comunità dove le unità minime di abitazione dell’abito sono in realtà piccole comunità dove viene condiviso lo spazio, il calore, un pezzo di territorio e la solitudine.

Kosuke Tsumura, Final Home 1991



Si arredano stanze come si riempiono tasche. Le tasche sono scrigni ad ogni età, sono il cassetto nell’armadio della propria infanzia, il luogo dove custodire quel che di più caro abbiamo, che celiamo ai nostri e agli occhi degli altri per la gioia di ritrovarlo un giorno. Così deve aver pensato quel ragazzo che prima di lasciare affetti e casa nascose nella fodera della sua giacca, la sua casa finale, le sue pagelle, passaporto per un futuro mai arrivato. L’artista e fashion designer giapponese, Kosuke Tsumura con l’etichetta Final home identifica nella giacca l’ideale di architettura del corpo e realizza dei capi in nylon, tessuto particolarmente resistente all’usura come all’acqua e facile da manutenere, vi apre 42 tasche che possano contenere oggetti, come merci e cibo, farmaci o carta da giornale per isolare il corpo dal freddo in inverno, un orso di nylon e dei cuscini gonfiabili pensati per dare conforto a chi li indossa. È un abbigliamento di sopravvivenza urbana, utilizzabile nelle situazioni di emergenza quotidiane così come in quelle più estreme.  

Un approccio completamente diverso, per tornare a leggere le figure nei libri, attento e puntuale all’abito e all'abitare l’abito è quello di Albertine Grosse, autrice e illustratrice Svizzera, premio Hans Christian Andersen 2020 alla carriera nella categoria illustratori, tra i molti altri. Albertine, spesso in coppia con il  marito Germano Zullo, indaga la psicologia dell’abito ovvero dell’abito che scegliamo di indossare per uscire e incontrare gli altri, che parli di noi sin dal primo fuggevole sguardo. In Les robes edito da La Joie de Lire ma mai pubblicato in italiano in ogni doppia pagina un outfit, il libro ne comprende venti, un personaggio femminile che abita una casa ricca di simboli che ne rispecchiano la personalità sino a renderlo costume, caricatura dell’essere. Una didascalia racconta l’abito come in una rivista di moda e poi per ognuno un breve racconto su chi è il personaggio e cosa fa per vivere e il motivo di quella particolare tenuta. La breve sinossi parla chiaro: broccati, chiffons, pizzi, crinoline, taffetas, sete, organze, gabardine, rasi, nastri, mussoline, popeline...ma chi c’è sotto questi bei vestiti? 

Recentemente sempre di Albertine Fatatrac pubblica un cofanetto dal titolo Modelli, contenete 38 cartoncini, 38 singole fine art, 38 travestimenti tra il carnevalesco e il teatrale ma anche dietro a ciò che si decide di indossare in modo un po’ buffo, fuori dagli schemi, con spregiudicatezza, osando al di là del proprio corpo, al di là dello stereotipo di bellezza, c’è un presentarsi all’altro e un desiderio di parlare di sé ancor prima di incontrare, c’è un dire “Io sono” e un andare verso l’altro seppur fastosamente abbigliati, di fatto nudi. Pensiamo ad una festa. Alla possibilità di travestirsi che offre. Una festa meglio ancora di un abito per un matrimonio offre la possibilità di osare, di entrare nei panni di altro da noi. Allora è più semplice indossare calze da paggio con un abito stravagante, lasciare un po’ più nude le spalle, tentare un colore nuovo per i capelli e una nuova bizzarra acconciatura che sposi perfettamente il mood. E poi mascherarsi. Coprirsi gli occhi, annullare la propria fisionomia con una piccola maschera nera. Celarsi e iniziare a giocare. Anche la pesante porta rossa di un’altro modello, ha la funzione di celare chi vi sta dietro e osserva da un ridotto spioncino. Personalità alla quale chiedere il permesso. Permesso per incontrarla. Ma così nascosta non ha sesso, non ha età, non ha personalità se non quella di una porta rossa con tutti i simboli che le si possono attribuire ma chi c’è dietro non c’è, non appare al mondo. È chiuso. O peggio chiusa. Chiusa dentro un abito, dietro un’ideologia politica o religiosa, una questione sociale, una logica maschile. 

Boushra Yahya Almutawakel, Mother, Daughter, Doll , 2014

Boushra Yahya Almutawakel è una fotografa yemenita che si occupa di documentare la condizione e percezione della donna araba/musulmana anche e soprattutto attraverso l’abito che indossa. In una sequenza di nove scatti dal titolo Mother, Daughter, Doll, dove si fotografa con una delle sue figlie e la bambola di quest'ultima, vuole rappresenta la sparizione delle tre donne per sovrapposizione di strati: prima con l' abaya (la lunga tunica nera tipica delle donne del Golfo Persico) e poi passando dal velo o foulard al niqab, da un colorato politicamente neutro al nero. Anche come viene indossato un velo contribuisce alla sparizione di chi lo indossa:  incrociato sulla fronte che però resta scoperta;  fermato sopra le sopracciglia a fronte coperta e chiuso sotto al mento ma lasciando l'ovale del viso scoperto e visibile, riconoscibile, sino a coprire tutto il viso lasciando scoperti gli occhi e poi anch'essi coperti da una ulteriore retina. In questa sequenza, sette scatti si riempiono di nero. Il nono scatto è solo nero, nell’oscurità si percepisce una seduta nera anch’essa, mamma bambina e bambola sono sparite agli occhi di chiunque. La valenza politica dell’abito vive anche nel contemporaneo e in tutto il mondo, ne sono un esempio i fazzoletti verdi al collo delle donne brasiliane che lottano per ottenere leggi sull’aborto che tutelino il loro corpo e la loro salute, movimento che si sta diffondendo in tutto il Sudamerica, la camicia a scacchi giallo/nera della destra più estremista della Germania e degli USA, così come l’eskimo della lotta della sinistra proletaria degli anni sessanta, per fare un salto indietro, non è differente dalle sperimentazioni sulla Final Home di Kosuke Tsumura, il peso, il tessuto e le molteplici tasche permettevano di trasportare, celare e tenere con sé oggetti, cibo e quant’altro relativo alla lotta o alla sopravvivenza per alcuni giorni. Lo scatto che ritrae Bernard Sanders, senatore statunitense, alla cerimonia di insediamento alla Casa Bianca di Joe Biden è diventata virale in pochi secondi. La giacca pesante usata nei gelidi inverni del Vermont e le muffole lavorate a maglia jacquard, stile Charlie Brown, sono diventati il simbolo di un uomo pratico al di là delle apparenze che lo rendono unico e riconoscibile in tutto il mondo. 

Jacques Joseph (James) Tissot 1836-1902, The Garden Bench, c1882

Dare per scontato l’abito in ogni sua possibile rappresentazione è come negare la storia che oggi e sempre l’umanità trama e ordisce in base ai bisogni, alla propria cultura, alla società, alla politica, al territorio nel quale è stata chiamata ad abitare, al suo essere femmina o maschio. Non identificare, distinguere particolareggiare significa omologare a un tutto senza singolari particolarità, indistinto, dove il tutto è nessuno. 




Cover dell'articolo: Davide Calì, Isabella Labate, Tre in tutto, Orecchio Acerbo, 2018
Cover del numero: Ethan James Green, photographer, IntrepidLondon





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